In un intervento apparso nel 2000, sul numero 2/3 della rivista “Culture teatrali” (studi, interventi e scritture sullo spettacolo), diretta da Marco De Marinis, Leo de Berardinis pone con chiarezza l’obbligo di distinguere tra “cultura dell’essere” e “cultura dell’avere”, tra cultura popolare e cultura di massa. Una riflessione oggi ancor più significativa di ieri, un invito, motivato, a stare dalla parte di una “cultura delle relazioni e non del consumo”.
Nel lemmario semplificato di una post-modernità omologante e aggressiva, non si fanno distinzioni: “massa” e “popolare” hanno lo stesso significato, e gli effetti appaiono evidenti e, per molti versi, imbarazzanti.
Il Cantiere poetico per Santarcangelo di quest’anno, dedicato a Giuliana Rocchi e alla sua poesia “operaia”, offre l’opportunità di una riflessione nel segno, ci si augura, della leggerezza calviniana, su un argomento appunto, che non ha nulla di scontato né tantomeno di accademico.
La poesia di Giuliana Rocchi è dunque insieme testo e pretesto che ci permette di trovare le parole per dire ciò che nella vulgata massmediatica appare spessissimo confuso e naturalmente ambiguo.
Cos’è, per esempio, il “popolare” in un serial televisivo di successo? O quello di una canzone di successo? Ciò che pertiene alla contabilità di uno share? Ancora, cos’è il popolare nel teatro? É ciò che per Leo de Berardinis […] coinvolge il pubblico in un unico processo e in uno spazio e in un tempo veramente reali, attori e spettatori per la creazione e prefigurazione di nuovi mondi possibili […], o lo “spettacolo” che ha successo e che si replica nella forma di un consumo rassicurante, interclassista e, neppure inconsciamente, anestetizzante?
Non si tratta, è ovvio, di negare in forma passatista o moralista, il ruolo di una comunicazione ipertecnologica, quella per intenderci del web che ingenera forme di relazioni nuove, assolutamente importanti nei numeri e nei linguaggi, e inevitabili (nel significato positivo del termine); si tratta di capire quanto queste relazioni muovano solamente dal parametro dell’“utile” e dunque, ancora una volta, del consumo, con effetti imprevedibili, e quanto invece abiti o possa abitare lo spazio e il tempo delle relazioni, del “comprendere”, nell’etimo latino del termine. Così de Bernardinis a proposito della scena teatrale: “L’arte scenica, quindi, come bellezza che svela la terribilità dell’esistenza per poterla superare, assemblea democratica, paradigma di una democrazia reale, luogo dell’igiene mentale e di previsione di modelli di relazione”.
E ancora: “Per popolare non intendiamo un abbassamento dell’arte scenica, ma, al contrario, un’arte alta e potente, che abbia la forza di abbattere le barriere culturali ed economiche che ancora ingiustamente esistono”. La critica attiva di de Berardinis, uscendo dall’ambito teatrale, pensiamo debba interrogare chi nella società attuale, quella, spesso, dello spaesamento e dei non luoghi, ha l’obbligo di impegnarsi per una identità delle relazioni, lontane da un esprit localistico, e per il riconoscimento di legami concreti nel segno della bellezza, prim’ancora dell’utile politico o dell’ economico.
Ennio Grassi